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L’arte di riparare

Riparare è un’azione non solo pratica, ma anche etica

18 Febbraio 2020

Diceva il monaco benedettino Jean Leclerq, vissuto verso la fine dello scorso secolo, che “La riparazione è un dato naturale d’ordine universale e consiste nel far passare una qualsiasi cosa da uno stato ritenuto meno buono ad uno stato migliore”. Mi piace questa definizione e sono affascinato dal gesto della riparazione, perché in essa vedo l’intenzione di rimediare ad una situazione di degrado, ripristinando nell’oggetto quella che aveva anteriormente e che aveva perduto.

Il tema è quello del rispetto verso il valore delle cose e delle persone che nel tempo quelle cose hanno realizzato con dedizione e amore.

In un versetto della Bibbia dice il profeta Isaia rivolto al popolo di Israele rimpatriato da Babilonia:“La tua gente rialzerà le vecchie rovine, e tu sarai ricordato come il popolo che ripara le rovine e ricostruisce le vie per abitarvi”.

Nel valore umano e nella dignità di tutti quelli che hanno vissuto per donarci i beni che utilizziamo è concentrato l’alto significato della riparazione, che va molto al di là dello scopo strumentale di poter continuare ad utilizzare un determinato oggetto. Riparare è prassi ma è anche simbolo.

Diceva John Ruskin, un grande personaggio dell’Ottocento, che dobbiamo accettare la fine delle cose. Un edificio, un capo d’abbigliamento, qualsiasi cosa che fa parte della nostra vita prima o poi cesserà di esistere, portando con sé una parte di noi. Per questo - aggiungeva Ruskin - dobbiamo fare di tutto per prolungarne la vita. Come? Mantenendola con piccole opere costanti di riparazione: riposizionare una tegola che il vento ha spostato, turare il buco di un discendente dell’acqua, sostituire un vetro rotto, tutto questo, se sarà unito alla pulizia e all’intenzione di bellezza, prolungherà l’esistenza di un oggetto in maniera naturale.

Se invece lasceremo che ogni nostro oggetto, non appena difettoso, venga scartato, con esso getteremo via una parte piccola o grande della nostra memoria, anzi del nostro ricordo, perché negli oggetti della nostra vita non risiede solo la nostra materia, ma anche il nostro spirito. Ricordare, dal latino, significa “richiamare al cuore”.

A volte penso che il fervore della riparazione rivesta una qualche sacralità, e i gesti che le appartengono, nel loro insieme, mi fanno pensare ad una amabile forma di liturgia, di rito.

Noi concediamo a noi stessi, secondo il giusto, la possibilità di riparare gli errori commessi. Trovo questa intenzione umanissima e fondamento del rispetto umano. Mi appare molto bella quella persona che, una volta commesso un errore, è così prudente da prenderne atto, mettere un punto e ripartire trasformando quella esperienza in crescita individuale. Noi cioè “ripariamo” noi stessi. Perché non dovremmo riservare anche alle nostre cose un trattamento simile?

Queste sono state buone abitudini per secoli, e mi sembra che abbiano sempre funzionato non soltanto a beneficio degli individui, ma anche della società. Forse però negli ultimi tempi qualcosa è cambiato, e piano piano l’azione di scartare le cose difettose si è fatto largo, fino a sostituirsi, in determinati casi, alla riparazione. Non ritengo di esprimere su questo giudizi che non mi spetta dare. Dopo tutto vi sono situazioni di alta tecnologia nelle quali il rapporto tra complessità dell’oggetto e rapidità di esecuzione sono tali che riparare sarebbe davvero poco plausibile. Anzi credo che un simile tema, se gestito nella costante consapevolezza del beneficio umano cui l’oggetto stesso è finalizzato, sia da lodare. Quindi non ritengo mai proficui atteggiamenti esclusivi, o sì o no. Ma che la riparazione, come parte integrale della vita dell’uomo, non scompaia, mi sembra la più amabile delle attenzioni alla dignità della persona umana, un’azione svolta “secondo natura”.

Più in generale “agire secondo natura” è un’espressione che mi piace, perché è gentile e al tempo stesso ricca di significati. Secondo natura è agire per quanto possibile impiegando mezzi naturali, ricorrendo agli strumenti meccanici o tecnologici con saggezza e prudenza e seguendo le giuste necessità. Coltivare il grano senza utilizzare concimi chimici o diserbanti non produce un grano “biologico”, ma un grano naturale. Naturale è l’azione dell’aratro che apre i solchi per la semina. Certo, e io lo ricordo, quel grano naturale non era molto alto e i raccolti erano uno o due all’anno, ma la terra aveva il tempo di riposare, e rimaneva viva; noi avevamo tempo di riposare, e il nutrimento che la madre terra ci donava era quello giusto.

Non trascuro il progresso, anzi lo ritengo il sale del futuro; mi piace però porre l’accento sul significato che ho sempre attribuito a tale termine, cioè progresso umano. Confucio improntava ogni sua singola azione pensando: “io non creo, tramando”. Anche se può sembrare in contrasto con l’idea di progresso, forse a ben vedere non lo è, anzi forse è l’espressione che permette di progredire, proprio perché conserva la propria tradizione, quella che tra le altre cose si mantiene anche con la riparazione.

Ma se da un lato dobbiamo conservare, sono sempre stato convinto che una conservazione integrale porti alla paralisi, e che si conserva soltanto, e proprio, quando si accettano i cambiamenti. Un altro filosofo, più vicino a noi, Voltaire, pensava che accettare i cambiamenti sia molto utile, perché “chi non accetta i cambiamenti insieme ad essi perde anche ogni beneficio che ne sarebbe derivato”.

Immaginare un luogo dove conservazione e cambiamento si uniscono armonicamente può essere la strada per arrivare al sano, equilibrato e sostenibile progresso.

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