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La mia Vita
Brunello Cucinelli, foto di Benjamin McMahon
La mia Giovinezza
«Ho ancora nei sensi il profumo, i suoni e le luci della vita contadina nella quale sono nato. Eravamo una famiglia di tredici persone, abitavamo in campagna a Castel Rigone, in un casale rustico circondato da campi, frutteti e boschi. Quella vita era come un piccolo mondo perché conteneva al suo interno il germe di ogni cosa fondamentale dell’esistenza.
Brunello, il secondo da sinistra, con i suoi fratelli e un cugino nella loro abitazione in campagna a Castel Rigone
Eravamo mezzadri e per noi era importantissimo quando alla fine dell’anno, verso Natale, si facevano i conti con il “padrone”, cioè il proprietario della fattoria. Di questo aspetto se ne occupavano il nonno Fiorino e lo zio Tonino. In casa, in attesa dell’incontro, si ripensava a come erano andate le cose, come era stato il raccolto: bene il grano, così così le olive... che cosa avrebbe detto il padrone? Quando lo zio e il nonno tornavano a casa, non parlavano mai di numeri. Da loro sapevamo soltanto che per quell’anno “era andata piuttosto bene, un buon anno, speriamo meglio nel nuovo”. Il che significava pochi soldi. Ma questa moderazione non mi dispiaceva. Il grano era un po’ la vita stessa di noi contadini: il valore del podere si misurava in base alla quantità di grano che si raccoglieva. Era bello vedere i miei familiari soddisfatti per il raccolto. La prima balla di grano andava alla comunità per volere di mio nonno. Da lì ho appreso il grande tema della vita: l’equilibrio tra profitto e dono.
1- Brunello a sedici anni, studente geometra
2- Brunello nel 2008 con una delle sue innovazioni: il tuxedo grigio
A quel tempo la conduzione contadina si poteva avvalere di pochi mezzi, non avevamo elettricità, e le forze principali erano quella animale e quella umana. Per questo ognuno aveva un suo specifico compito, e mi piaceva molto che tra il compito assegnato e la persona vi fosse una corrispondenza che li rendeva reciprocamente adatti, una legge antica della campagna. Mio padre, il più robusto, aveva i compiti fisicamente più gravosi, un mio zio, leggermente più gracile, era addetto a rigovernare gli animali, e così ognuno il suo. Io, magrolino e, come mi definivano mio nonno e mio zio, “volpino”, ero addetto alla raccolta delle olive perché mi arrampicavo sui rami più alti senza spezzarli grazie al mio peso minimo. Poi avevo tendenza alla precisione, e questo mi fruttò il secondo compito fisso, che era quello di tirare i buoi per l’aratura. Eravamo in due: mio padre a guidare l’aratro, e io avanti, che riuscivo a tenere i buoi esattamente al centro del solco. Terminata l’aratura, mio padre studiava attentamente i solchi ben tracciati e infine mi diceva: “Bravo, guarda come sono dritti”; se gli chiedevo perché fosse così importante, la sua risposta era tanto semplice e vera: “Perché sono più belli”. Nella semplicità con la quale mio padre identificava la linea diritta con la bellezza vi era tutto il significato della corrispondenza tra l’esattezza e la riuscita di un lavoro, dinanzi alla quale il concetto di bellezza nasceva spontaneo. Non è forse vero, secondo quanto narra la Bibbia, che alla fine dei sei giorni della Creazione Dio, riguardando il suo lavoro, “vide che era bello”?
La vita di ogni giorno, nel suo cadenzato svolgersi, prevedeva una colazione molto presto, con pane, caldo e abbrustolito d’inverno, latte e caffè d’orzo. Poi a lavorare nei campi e una grande colazione “di rinforzo”, magari con pane e verdure come i peperoni; poi il pranzo, del quale ricordo come un sogno le squisite fettuccine che preparavano mia madre e mia nonna. Dopo pranzo facevamo un piccolo riposo, allora importantissimo per noi che ci alzavamo all’alba e ancora oggi per me ristoratore e affascinante. Poi di nuovo al lavoro e la sera, al calar del sole, la cena con la minestra e l’insalata. La domenica si mangiava carne.
Illustrazione di Sunflowerman
Tutto questo, ogni singola azione, ogni gesto avevano l’aspetto di un rito e un significato sacro ai miei occhi. Il loro regolare svolgersi nel giorno e nel tempo davano ad ognuno la forza della sicurezza nel futuro. Ogni anno, a Pasqua, era tradizione mangiare l’agnello che avevamo allevato a tale scopo. Ma per noi bambini, che durante tutto il tempo ci eravamo affezionati alla bestiola, era un momento anche triste. Tutti sapevamo che il cibo è giusto quando è naturale e necessario e da qui veniva la dottrina del rispetto della natura, in ogni sua sostanza. Rispettare gli animali non era diverso dal rispettare gli alberi, i fiumi, ed ogni cosa del creato. Come mezzadri eravamo custodi dei beni che ci erano stati affidati, e da questo imparai presto che tale custodia è un valore universale, esteso a tutte le persone e alla necessità di rispettare e tenere in ordine ogni più piccolo angolo del luogo del nostro vivere.
La vita contadina era il luogo dove ogni realtà umana, per noi piccoli, era trasformata in memoria preziosa. Anche il saper essere attenti alle cose che ci capitano è un valore non di rado prezioso nel corso della vita. Per me tale insegnamento passò per il bene che mi voleva mio nonno paterno Fiorino, il quale aveva nei riguardi di me ragazzino un debole e un’alta considerazione.
Di domenica pomeriggio il nonno mi portava a giocare a carte al bar del paese, e per me era una festa; vestiva con stile: sempre con una camicia bianchissima di bucato, giacca e pantaloni scuri. Avevo più o meno otto, nove anni, e seduto al tavolo da gioco vicino a lui contavo le carte e studiavo le giocate; lungo la strada di ritorno, camminando per un’oretta verso casa, mi spiegava le ragioni delle buone mosse e di quelle sbagliate. Molto piansi alla sua inaspettata morte, per un infarto, quando aveva solo sessantotto anni. Fu quella la mia prima esperienza con la morte, e il ricordo non mi ha più abbandonato. Capii quanto è dignitoso il contegno dinanzi al dolore.
La famiglia Cucinelli nel 2017. Da sinistra, Riccardo, Camilla, Penelope, Vittoria, Alessio, Carolina, Federica e Brunello
Nonno Fiorino amava farmi racconti di guerra. Erano storie umane e, a dispetto dell’argomento, a volte anche con qualche accento spiritoso. Non rammento alcun episodio brutto, cruento, ma sempre aneddoti dai quali alla fine emergeva la capacità dell’uomo di adattarsi anche alle difficoltà peggiori e, con il tempo, incredibilmente, giungere addirittura a ricordarle accompagnate da una vena di nostalgia. Quella che veniva fuori dai suoi racconti era una guerra senza cannoni e senza morti, una guerra di amicizie nate anche fra soldati nemici. Mi inorgoglivo delle sue avventure.
Molto caro mi è il ricordo di mia zia Ginetta, forse la donna più mite fra le persone che ho conosciuto. Aveva un vivo sentimento religioso e le ripugnava commettere cattive azioni. Il suo insegnamento, senza mai una parola fuori posto, mi è stato di grande ispirazione. Il suo bellissimo bambino, all’età di sei anni, si era ammalato di tubercolosi, una diagnosi drammatica per quegli anni; dopo mesi di sofferenze in ospedale tornò a casa, purtroppo morente, accolto tra le braccia degli zii. Il medico volle tentare ancora un’ultima possibilità, ma la medicina necessaria si poteva trovare solo in una farmacia a due ore di cavallo. Senza esitare mio padre si incaricò dell’impegno e cavalcò fino allo sfinimento condotto dalla forza della speranza. Tornò a casa stremato; l’iniezione fu praticata immediatamente, e tutti erano in un’aspettativa angosciosa, ma quel pomeriggio stesso quella giovanissima anima ci lasciò. Non si può descrivere il dolore di tutta la famiglia.
Da quei ricordi e racconti, ispirato dagli insegnamenti di zia Ginetta, iniziai a cercare il rapporto con l’aldilà, e anche grazie a questo oggi non ho dubbi sull’immortalità dell’anima.
Ogni cosa bella mi è venuta dalla famiglia e dalla vita di campagna, quei cieli sempre nuovi, con nuvole fuggenti, azzurri infiniti, firmamenti di stelle, e gli odori dei campi, lo stabbio, il profumo dei meli in fiore, dei gelsomini essiccati che mia madre riponeva negli stipetti per profumare il bucato, i sapori essenziali di quei cibi semplici che ancora oggi mi sono rimasti nel cuore.
Il filosofo e poeta greco Senofane diceva: “Dalla terra tutto deriva”, e penso di poter dire che noi vivevamo in armonia con il Creato.
Non vi era solo la famiglia però. La vita esterna, per quanto limitata alla sola esperienza scolastica, contava, perché ci occupava ogni mattina e la sera, con i compiti che svolgevo solo grazie alla pazienza di mia madre nel farmi imparare a memoria le poesie.
La scuola, a Castel Rigone, con forse meno calore della famiglia, mi mise a confronto con qualcuno leggermente diverso da me e dai miei fratelli, cioè i paesani. Ad un cittadino non appare con sufficiente chiarezza come sia possibile che i paesani guardino con un certo distacco i contadini. Facevo di tutto per essere a puntino, ci cambiavamo gli scarponi inzaccherati prima di entrare in aula, eppure qualcosa nel vestire, nei capelli tagliati alla brava da un mio zio, nello stesso accento che cambiava a soli pochi chilometri di distanza, faceva sì che, appena entrati, il primo giorno di scuola, fummo riconosciuti, non trattati male, ma sì, eravamo contadini.
Quando avevo quindici anni i miei genitori, come diversi altri contadini loro amici, presero l’ardua decisione di trasferirsi in città, diventare operai. Qui, dalla sera alla mattina, tutto nuovo, tutto diverso, tante comodità, la luce, gli elettrodomestici, i caloriferi, la televisione, il telefono, da un lato; dall’altro erano persi il cielo infinito, la distesa dei campi, il profumo dei boschi, l’odore degli animali, la campagna inargentata dalla luna piena, e quelle notti incantate durante le quali perdevo gli occhi e il pensiero nell’infinità delle stelle. Ma poiché ogni momento della vita insegna qualcosa, compresi ben presto che quell’anticipo di tecnologia fatto di elettrodomestici era un dono del Creato in grado di rendere più facile la vita. Un dono benefico condotto da quella stessa intenzione umana che oggi sta guidando l’evoluzione tecnologica verso nuovi progressi, come ad esempio l’Intelligenza artificiale, strumento prezioso che penso contribuirà a facilitare l’avvento del futuro dorato che ci attende.
Mio padre era operaio in un’azienda di prefabbricati in cemento armato. Quando la sera tornava a casa lo sentivo lamentarsi di essere umiliato dai suoi datori di lavoro. Lo vedevo deluso, turbato, con gli occhi lucidi; diceva: “Che cosa ho fatto a Dio per essere offeso così?”. Fui molto colpito dal suo dolore ingiustamente causato; mi sentivo impotente a difendere mio padre, ma dentro di me divenne chiaro che, pur non sapendo ancora cosa avrei fatto nella vita, in futuro avrei vissuto e lavorato per il rispetto della dignità morale ed economica delle persone. Imparai anche che l’ira è una grande nemica proprio di chi la prova. Mi ha sempre affascinato l’espressione di San Paolo quando dice “non lasciate che il sole tramonti sulla vostra ira”.
In un altro caso però mi fu possibile restaurare la giustizia. I “cittadini” ci consideravano leggermente diversi, e magari qualche volta facevano scherzi non molto simpatici. Il mio compagno di banco veniva anche lui dalla campagna; la madre era morta da poco, e per molto tempo la tristezza e lo smarrimento della desolazione lo resero assente, quasi estraneo alla vita di scuola. Altri compagni più grandi ne approfittavano per rubargli la merenda; non si riusciva a capire chi fosse il ladro, e io non avevo denari per comprare un nuovo panino per lui; come fare per interrompere questi furti poco amabili? Un giorno trovai l’idea adatta: chiesi a mia madre di prepararmi una merenda doppia, imbottita con la mortadella; segretamente poi vi aggiunsi un’abbondante dose di lassativo, e misi il tutto al solito posto, dicendo al mio amico: “Vedrai che stamattina il ladro verrà allo scoperto”. Dopo una mezz’oretta due ragazzi, con evidente urgenza, chiesero al professore il permesso di andare al bagno. Il resto lo potete immaginare, e devo dire che smisero una volta per tutte di derubarci della colazione.
L’altra grande novità della vita cittadina era il bar, il caffè italiano. Questo luogo per me nuovo divenne quello più a lungo frequentato. Ha rappresentato la mia personale università̀ di vita e di umana conoscenza. Gli avventori in quei tempi erano quasi tutti uomini, sostanzialmente di tre tipi: gli operai che venivano dopo aver staccato dal lavoro nei cantieri, gli studenti e i perdigiorno come me. Si giocava a carte e si facevano tanti scherzi, e bisognava stare bene attenti a saperli accettare con ironia.
Nel bar era possibile trovare sempre qualcuno disposto ad ascoltare le tue pene. Fui io così, ad esempio, per Lella, una lucciola che di sera tardi, anche lei dopo aver staccato dal lavoro come gli operai, veniva per cercare conforto. Presi pena per questa donna, io diciottenne che cercavo ma non trovavo le parole di piccolo sollievo per una vita sbagliata. Confucio diceva: “La cosa migliore è dimorare nel senso di umanità”.
A tarda notte la parola prendeva il sopravvento sul gioco, e iniziavano le discussioni: si spingeva il confronto sui temi di grande attualità politica, poi, in piena libertà di pensiero, si passava a dibattere di economia, di teologia, di religioni, di spiritualità, di donne, di burle.
Alcuni dei ragazzi frequentavano il liceo classico, e studiavano filosofia. Mi parlavano di una disciplina che non conoscevo bene, perché non era prevista nei programmi dell’istituto per geometri che all’epoca frequentavo. Parlavano di Schopenhauer, di Hegel, di Kierkegaard... Una sera poi il discorso andò a finire su Kant. Capivo poco di quello che dicevano, ma drizzai le antenne. Ero molto curioso di capire per quale ragione questo pensatore fosse considerato tra i più grandi filosofi dell’epoca moderna. Il giorno dopo mi misi alla ricerca di ulteriori informazioni, e infine riuscii ad acquistare una copia usata di una delle sue opere maggiori. Cominciai a leggere il libro, ma era molto difficile, soprattutto per me, impreparato al linguaggio filosofico. Invece erano chiari e significativi i suoi aforismi, le sue espressioni! Imparai a porre l’umanità come fine e non come semplice mezzo, e a rispettare la grande armonia che nasce tra il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me.
Successivamente mi appassionai di tanti altri filosofi, soprattutto antichi: Socrate, Platone, Aristotele, attraverso la storia di Alessandro Magno, Seneca, e poi Marco Aurelio, testimoni di uno stoicismo umanissimo, e poi Sant’Agostino, che seppe dare al Cristianesimo la dignità filosofica, e ancora Confucio, Vico, Spinoza, Leibnitz, fino ai padri dell’Illuminismo Locke e Hobbes. Quanto utili sono stati gli insegnamenti di questi grandi, ai quali ho dedicato molte statue e busti nella mia casa e nelle vie pubbliche di Solomeo.
Al bar venivano discusse tante cose della vita. Dieci anni di intensa bellezza, anche etica, dove ho conosciuto e imparato la velocità e l’intuizione, la pazienza e la durezza, la pietà e il coraggio. In fondo il bar, come ho già accennato, fu la mia “università di vita”.
Quando conobbi la mia amata Federica avevo circa diciassette anni. Lei, oggi mia moglie, era nata e viveva a Solomeo; per andare a scuola a Perugia prendeva lo stesso pullman sul quale poi salivo anch’io. Mi piacevano la sua figura esile, la sua eleganza e la sua riservatezza; ci misi un sacco di tempo anche solo a rivolgerle la parola, perché la voglia di parlarle, che pure era grande, veniva ogni volta frenata dalla paura di sembrare banale o di dire qualche sciocchezza. Infine presi coraggio e cominciai a farle la corte, ma data la timidezza, sua e mia, non fu un’impresa facile. La mia perseveranza infine fu premiata, e dopo un po’ ci fidanzammo.
Così andavo sempre più spesso a Solomeo, frequentavo i suoi amici, e tutto mi sembrò molto speciale, nonostante allora quei luoghi fossero piuttosto offesi dallo scorrere del tempo. Il papà di Federica aveva lì un piccolo negozio di mercerie, stoffe e casalinghi, e anche lei avrebbe poi aperto una piccola attività commerciale di abbigliamento; molto spesso la accompagnavo a fare acquisti, e fu lì che iniziai a incuriosirmi del mondo della moda. Ero ormai sulla soglia della mia seconda nascita.
Con Federica discutevamo molto del nostro futuro; le parlavo dei miei sogni di diventare ingegnere, esploratore, rivoluzionario pacifista, umanista... un vero pasticcio, un groviglio che lei, più̀ riflessiva di me, mi aiutò a districare e a ridimensionare. Ma il mio idealismo positivo rimaneva inossidabile. Il tempo cambia le forme, ma non la sostanza delle cose. Da Aristotele a Rousseau, con uno sguardo che attraversa i millenni, la filosofia riconosce che la natura degli uomini è di tendere alla conoscenza, e la conoscenza coincide con il bene. Se sapremo conoscere a fondo i sogni del nostro cuore, questo sarà il più importante dei risultati della nostra vita.»
La mia Visione del Mondo
“Dalla terra tutto deriva”.
«Questa espressione del filosofo greco Senofane, nella sua semplicità, mi appare immensa e una delle più adatte ad esprimere la magnificenza del mondo.
Quasi tutti i filosofi occidentali hanno immaginato un ordine universale nel quale poter riconoscere il significato del Creato; il pensiero orientale, inoltre, ha immaginato la realtà come un flusso in continuo mutamento, dove ogni cosa è in tensione vitale con un'altra, e proprio cogliendo tale tensione si vive la vita con utile e piacere in accordo con la natura.
L’idea del cambiamento mi ha sempre attratto. Nel XVI secolo il grande umanista Tommaso Moro così pregava: “Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare, che io possa soprattutto avere l’intelligenza di saperle distinguere”. Proprio il discernimento, a volte, appare la parte più difficile nel cambiamento, perché richiede il sapere. Anche l’accettazione, quando ciò che abbiamo dinanzi è il dolore, non sempre è facile: però Sant’Agostino pregava: “Signore, tu che dai per maestro il dolore”.
Ordine e flusso, ordine e cambiamento li vedo come due sorgenti generatrici, e penso che se sapremo coniugarli con armonia potremo sempre seguire un giusto progresso. Mi piace pensare che l’arte del progresso sia la preservazione dell’ordine nel mutamento, e del mutamento nell’ordine.
Tali idee mi sono sempre state da guida, e illuminano costantemente la mia strada. Immagino come delle fiaccole, che ci sono state affidate dai nostri padri, e che noi stessi affideremo ai figli. Non è forse questo un grande simbolo del Tempo, con la sua durata? Non è forse l’armonia tra passato, presente e futuro che ne esprime il più alto significato? Il poeta latino Lucrezio, autore di uno dei primi libri sulla Natura, pensava agli uomini come a corridori della vita, che si passano l’un l’altro la fiaccola, a simbolo del pensiero umano che si trasmette di età in età all’infinito.
Mi piace pensare, per la mia parte, di essere un “lampadiere” che percorre con passione il suo viaggio misterioso e coraggioso. Oggi che per me gli anni a venire sono minori di quelli passati è sempre più frequente immaginare che la fine di una vita è la nascita di un’altra: ho imparato questo dalle parole che un caro amico mi disse alla morte di mio padre. E mi riconosco nella sapienza di Confucio quando dice: “A sessant’anni posso lasciar vagare la mia mente senza trasgredire la legge morale”. Alla vita futura, quella dei nostri figli e di tutti quelli che verranno dopo di noi, dobbiamo costantemente pensare: il migliore di ogni patrimonio che i padri possano lasciare ai figli in eredità, è la gloria della virtù e delle grandi azioni.
Inseguo con fede l’insegnamento dei padri, l’intero sconfinato stuolo di tutti i grandi pensatori del passato. Con loro il dialogo si svolge per mezzo dei libri scritti, quei libri cartacei che ancora conservano tra le pagine antiche il profumo di un tempo lontano e la vita di un pensiero eterno. Anche per noi è sublime ritrovare quegli uomini attingendo direttamente alla loro parola, porre loro delle domande, e gioire delle loro risposte. Il libro è maestro, e per questo merita la nostra più assidua cura, e nascono le biblioteche, che sono i templi della sapienza umana. Come dimenticare che per secoli la conoscenza è stata coltivata nelle gelose mura della Biblioteca Alessandrina, fondata dal diadoco Tolomeo I ma ispirata da Alessandro Magno, che da parte sua ne aveva compreso il significato universale dalle parole del suo maestro Aristotele?
Ogni uomo sapiente ha amato i libri: Adriano imperatore considerava le biblioteche i granai dell’animo; Plinio il vecchio pensava che nelle biblioteche parlano le anime immortali dei trapassati; “Medicina dell’animo” era scritto sull’ingresso della biblioteca del Re Osimandia in Egitto.
Mi affretto con misura e tempo a costruire, conservare, abbellire, e metto ogni cura nel favorire la durata delle cose. Il conservare a volte è negletto perché richiede una conoscenza maggiore del costruire, ma non è meno importante di quello. Sono convinto, come sosteneva lo Storico dell’arte e pittore del XIX secolo John Ruskin, che in ogni oggetto da noi realizzato rimane qualcosa di noi, e che ogni prodotto della laboriosità umana ha una vita a termine. A noi non resta che fare il possibile per allungare il momento di tale termine custodendo amorevolmente i nostri beni e le nostre tradizioni, mantenendo vivi memoria e ricordi. E la memoria è tesoro e custode di tutte le cose.
Se durerà la nostra famiglia, che è il luogo della pace, durerà la nostra casa, e con essa le nostre città e il mondo intero con la sua immensa bellezza. La nostra patria è dove abbiamo scelto di vivere, è dove ognuno ha diritto di poter restare. Ma vivere non basta, è necessario vivere bene, tenendo nel massimo conto, come insegna Kant, il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi. Nemmeno le leggi umane che ci siamo date vanno ignorate: penso a Pericle, con il suo esempio magnifico di democrazia in Atene; qualche legge potrebbe forse non piacerci, ma nel rispettarla è la nostra libertà sociale.
Nel palazzo comunale di Siena un incantevole dipinto mostra, con il fascino dell’arte, che il Buon Governo è quello dove la Sapienza regge la Giustizia, e da questa è generata la Concordia. Ambrogio Lorenzetti, l’artista, con visione idilliaca mostra il lavoro beato che Sapienza, Giustizia e Concordia garantiscono: quello che si vede è il lavoro campestre, l’economia curtense dove tutto serviva a tutto e ogni uomo laborioso era un artigiano. Nessuno di quei valori è venuto meno nel mondo contemporaneo.
Ogni onesto mestiere è buono e onorevole, e non viene mai meno. Nel XVI secolo Benedetto Cotrugli, con il suo geniale libro, ci insegnò che la mercatura è un mestiere onorevole. L’artigianato soprattutto è onorevole: quale migliore dono possiamo fare alla cosa pubblica, che quello di insegnare alla gioventù educandola e avvicinandola ai valori dell’artigianato? L’arte migliore è quella in cui la mano, la testa e il cuore di un uomo procedono in accordo. Non è forse questo l’artigianato? Esso è, io credo, il modello più alto di un lavoro umanistico, perché esercitandolo si impara, perché è fisicamente sensibile, perché è espressione del genio, e perché rispetta i tempi naturali che alternano azione a riposo.
Occorre alternare lavoro e riposo per fare bene le cose. Nel lavoro il progresso è naturale, ma bisogna ricordare che esistono alti e bassi e che è opportuno accettare tale alternanza con animo eguale, perché dobbiamo ricordare il passato, vedere il presente e intuire il futuro: solo così sapremo staccarci e innalzarci al di sopra delle contingenze fisiche. Un lavoro concepito in tal modo rispetta la dignità dell’uomo; sono convinto che un sano lavoro è piacevole, che il piacere aggiunge perfezione al compito che svolgiamo, e che la felicità, tra le altre cose, sta anche nell’esercizio del proprio ingegno.
Penso anche che la misura sia la regola principale di un lavoro amabile. In altre parole, un lavoro giusto è quello che regola i suoi tempi con quelli della natura, quello che avanza armoniosamente, che coniuga desideri e progetti, il giusto profitto e il dono; un lavoro giusto è quello che non deriva da decisioni individuali, ma dal confronto e dalla condivisione con gli altri, è quello che ama ciò che è utile e considera bello quanto è utile a tutti. Un lavoro giusto, oggi e nel futuro, è quello che sa riconoscere il grande valore della tecnologia e dell’intelligenza artificiale e sa avvalersi dei loro risultati come preziosi doni performanti della preminente natura umana.
Credo in una forma di Capitalismo Umanistico contemporaneo dove il giusto profitto si consegua cercando il meno possibile di recar danno al Creato e all’umanità. Mi piace pensare ad una sostenibilità inclusiva dei valori materiali e di quelli spirituali, un luogo concreto dove l’ambiente, l’economia, la cultura, la tecnologia, lo spirito e la morale vivano insieme, completandosi nel concetto di Umana Sostenibilità.
La gloria che deriva a noi dalle azioni del lavoro è pura soltanto quando non la si insegue ma è lei a inseguire noi. Mi piace pensare che il miglior riconoscimento per le fatiche fatte non è il riscontro che se ne ricava, ma ciò che noi diventiamo grazie ad esse. Ed è nostro imperativo morale crescere nella conoscenza e nella verità.»
Riconoscimenti e Premi
Brunello Cucinelli ha ricevuto un numero importante di riconoscimenti nazionali e internazionali per il suo “Capitalismo Umanistico e Umana Sostenibilità” e per la sua attività d’imprenditore:
Da parte dell’Università di Roma “Sapienza”, viene insignito del titolo di Dottore di Ricerca Honoris causa in “Management, Banking and Commodity Sciences”, un riconoscimento con cui si è voluto rendere omaggio alla «particolarità della sua azione imprenditoriale, che è sempre stata quella di offrire lavoro nel pieno rispetto della dignità morale ed economica dell’uomo».