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Aristotele

Autunno-Inverno 2015

La Natura di Teofrasto e del fraticello di san Francesco è la Natura naturans, la natura intoccata dall’uomo, quella che nutre e guarisce senza nulla chiedere, cantata anche, dopo secoli, da Giordano Bruno e da Baruch Spinoza. La Natura Scientiae è quella di Galileo e di de Vries, quella che nasce con il Rinascimento e ancora dura, e diviene sempre più importante; la Natura sentimentalis è quella romantica di Rousseau, ma anche di tanti altri, di Charles Dickens, di Alessandro Manzoni, di Huī Zōng, di Mark Twain, di Katsushika Hokusai, di Edgar Allan Poe, di ognuno di noi.

In quanto simboli, gli esempi citati ci permettono di entrare direttamente in contatto con i significati profondi delle cose: in questo caso, della Natura. Divisa da sempre tra materia e divino, pur nei diversi atteggiamenti influenzati in progresso dalla cultura e dalle necessità della storia, la Natura è da sempre il massimo riferimento immanente degli uomini, che da essa dipendono, per la vita e per la morte, individualmente e collettivamente.

In questa grande madre, nel tempo, ma anche al di là del tempo, l’uomo ha ricercato, temuto, desiderato, amato, di volta in volta, la divinità che lo ha creato, la nutrice generosa e spontanea che lo ha alimentato, la furia che lo ha colpito; e dal Rinascimento in poi, inorgoglito di sé stesso, ha voluto indagarla, ed è riuscito dapprima a scoprirne i misteri, quindi a modificarla sempre più integralmente. Da recettore a attore. L’uomo, che nei suoi primi anni succhia il latte dal seno della madre, in età adulta interviene su di lei, e a lui spetta ora il compito immane di mantenerla viva, per rimanere lui vivo.

Forse prima, quando non poteva fare altro che subire i ritmi e le quantità della vita, l’uomo, suddito e figlio, e certo inconsapevole del futuro, viveva in una sorta di serena condizione riguardo a un ordine sovrumano al quale si rimetteva totalmente.

Nell’era moderna il progresso da lui creato modifica a fondo questo rapporto, lo spinge verso una grande responsabilità e gli pone un gigantesco problema etico. Come gestire le nuove possibilità che gli permettono di intervenire nella Natura modificandola dal suo interno? Fino a che punto è lecito, o se si vuole è utile giungere? Non conosciamo ancora la risposta a questa domanda, ma sappiamo che da essa dipende se avremo una vita piena di bellezza o una morte drammatica. La torre di Babele racconta la storia di uomini che, per aver troppo osato nella ricerca della verità, si sono persi. È un’immagine vigorosa, che pur al di fuori del suo contesto religioso, mantiene una grande forza evocativa e attualissima.

Dobbiamo ispirarci proprio alle leggi naturali, a quelle della necessità delle cose. Secondo Aristotele la Natura «non fa mai nulla di inutile», e, possiamo anche aggiungere, mai nulla di superfluo. Anche la lussureggiante livrea dei pavoni, con i suoi fremiti e i suoi colori sgargianti, ha una sua ragione e un suo scopo. Torniamo al fraticello giottesco, e immaginiamo di seguire passo dopo passo l’acqua che sgorga dalla roccia: prima un piccolo rigagnolo, poi un ruscello spumeggiante, poi, in valle, un fiume maestoso, e infine la vastità infinita del mare. Un percorso che può durare per migliaia di chilometri, ma che non traccerà mai una sola traiettoria, un sola ansa, che non siano essenziali, economiche ed efficienti. Per noi è lo stesso. Credere che gli strumenti della tecnologia contemporanea si trasformino in nostri nemici è un alibi, perché siamo sempre noi che scegliamo come utilizzarli, utilmente ed efficientemente, per il progresso.

Il principe Myskin, nel dire che la Bellezza avrebbe salvato il mondo, fu deriso, ma proprio come tanti altri visionari che furono così umiliati dai loro contemporanei, aveva ragione. La Bellezza salverà il mondo: a noi spetta soltanto di salvare la bellezza, e questo possiamo fare con semplicità e con etica, guardando e imparando, con coraggio e amore, dalla Natura.