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Veduta di Solomeo dalla strada principale d'ingresso al borgo, 1913

«A ventiquattro anni fui assunto come indossatore da un’azienda di abbigliamento sportivo che aveva la sede vicino a casa; era tra i numeri uno del mondo nel campo dello sci e del tennis. Curavo sempre con grande attenzione il mio modo di vestire, leggevo riviste di moda e mi tenevo aggiornato sulle ultime tendenze. Così, passo passo, andavo verso il domani e a venticinque anni la decisione fu presa: volevo produrre pullover di cashmere solo per donna, colorati secondo il gusto contemporaneo. Avevo l’impressione che fosse davvero nuovo. Ferma era l’idea di produrre capi di alta manualità̀ e artigianalità̀ italiana, prodotti che fossero sì costosi, ma non “cari”, destinati ad una fascia di mercato detta “di lusso assoluto”. Sono stato sempre molto convinto che per realizzare qualche cosa di speciale è necessario concentrarsi unicamente su di un progetto che rappresenti il sogno della vita.

All’inizio, la spinta per cominciare mi venne dall’incoscienza e dall’istinto. Oggi sono sempre più convinto che si deve agire anche quando si hanno speranze deboli, perché́ a volte proprio le utopie sono all’origine dei successi più incredibili. Gli inizi furono incerti, come spesso accade, però tenni duro, ed ecco che un giorno qualcosa cambiò in positivo.

Sempre amabile è in me il ricordo di quella bravissima e seria persona alla quale chiesi di vendermi circa venti chilogrammi di filato in cashmere di colore écru, il quantitativo bastevole a realizzare circa sessanta pullover. Con un gesto fraterno mi disse che me li avrebbe venduti senz’altro, poi aggiunse una frase che ancor oggi mi commuove: “Mi pagherai quando avrai i primi denari. Ti conosco, sei un ragazzo bravo”. Purtroppo una dura malattia lo colpì nella sua iniziata vecchiezza e quindi non ebbi il tempo di ringraziarlo quanto avrei voluto.

Immagine con ilustrazione di Sunflowerman

Meraviglioso fu poi quando mi recai in tintoria e per la prima volta incontrai Alessio, forse tra i più esperti tintori al mondo per il cashmere. Andai da lui con sei pullover da donna e gli chiesi di tingerli in sei colori diversi tra loro ma di toni non troppo forti. La prima risposta secca fu: “Lei è pazzo a tingere il cashmere in questi colori”. Quasi per tutta una mattina cercai in ogni modo, supplicandolo, di convincerlo a soddisfare la mia richiesta. Alla fine mi disse: “Proviamo, però non posso garantire il risultato”. Senza dubbio è stato il momento più̀ importante della mia vita. Ho tanti debiti di gratitudine verso quest’uomo: scherzoso, idealista, sognatore, attaccatissimo alle sue radici.

Avevo letto in qualche rivista specializzata che in Trentino Alto Adige i clienti ordinavano e pagavano rispettando i tempi come in nessun’altra parte d’Italia. Mi misi subito in viaggio e il primo cliente fu Albert Franz di Naturno, uno splendido paesino nei pressi di Bolzano, che con la sua boutique è ancora oggi tra i nostri clienti. Il signor Albert era un uomo forte, aveva forse l’età̀ di mio padre e una bellissima famiglia. Fin da subito si comportò con me in un modo esemplare: serio, puntiglioso, rigoroso, e molto umano. Nacque tra noi una simpatia che si aggiunse alla stima, ed iniziammo a collaborare. Non vi è dubbio che il ricordo di quel primo ordine di cinquantatré́ pullover in cashmere è tra quelli che resteranno nel mio cuore.

Non avevo mezzi, e l’unica forza poteva essere il finanziarmi con ottimi pagatori. Scelsi quindi di recarmi in Germania a cercare clienti, perché́ sapevo che i tedeschi erano seri nel lavoro e puntuali nei pagamenti. E così la Germania divenne il primo paese importante con il quale lavorai e ancora oggi ricordo con un sentimento di gratitudine quei primi tempi avventurosi dei quali i tedeschi furono amichevoli compagni.

Brunello Cucinelli nel suo studio al castello di Solomeo, 1999

Mi è carissimo anche il ricordo di Vincenzo, uno dei primi clienti che viveva e lavorava a Milano. Mi raccontava della Puglia nativa, del suo sofferto arrivo in Lombardia, della vita in una baracca di legno fino a quando non gliel’aveva portata via il vento, un episodio talmente clamoroso che ne parlarono anche i giornali. Io lo ascoltavo, attratto dal carisma di un’anima buona: le sue parole scorrevano leggere. Mi fece un ordine molto consistente accompagnandolo con questa frase: “Questi sono i soldi, voglio che tu li utilizzi nel tuo lavoro”; erano tanti, rimasi senza fiato: per capire il mio stato d’animo basti pensare a quegli anni difficili e alle modeste cifre che in quel tempo gestivo. Istintivamente, senza considerare il mio interesse, gli chiesi quali garanzie pensava potessi offrirgli, visto che non avevo né denari né beni di proprietà̀. Il suo viso si distese in un sorriso benevolo, mentre mi diceva: “Ho cinque fratelli, che con me fanno sei, più̀ mio padre e mia madre; e tutti siamo convinti delle tue qualità̀ imprenditoriali e morali, crediamo in te. Questo a noi basta; quindi non farti un cruccio per i denari, lavora come sai in perfetta serenità̀, e questo è tutto”. Quel tipo di situazione stimolava le mie qualità̀ e la voglia di superare me stesso, e così fu.

Vincenzo divenne uno dei primi finanziatori, cui sono immensamente grato; era un uomo semplice e di parola. La sua morte, avvenuta a soli cinquant’anni, mi privò di un grande affetto.

All’epoca ero piuttosto privo di cultura imprenditoriale, e non sapevo nulla dei miei concorrenti, però questo non contava quanto la forza di un entusiasmo che poi è costantemente cresciuto. Sembrava che mi fossi preparato a quel momento da chissà̀ quanti anni, e fu allora che la mia esistenza cambiò direzione.

La mia cultura contadina e la mia esperienza personale avevano avuto molto a che fare con tale scelta. Torno a ricordare quanto l’ascoltare delle umiliazioni che mio padre subiva in fabbrica e il vedere i suoi occhi lucidi sia stato per me una sofferenza, e quanto fortemente quel dolore si sia trasformato nel rifiuto di qualsiasi offesa alla dignità̀ delle persone. Il mio imperativo morale era di non mancare mai al rispetto dei valori umani, cui cerco costantemente di tenere fede.

"Solo l'anima giusta è felice." (Socrate)

Credevo nelle cose preziose prodotte senza recare danni al Creato, o, se non altro, il meno possibile. Immaginavo dei manufatti gratificanti per chi li utilizzava e per chi li produceva, e che il lavoro si svolgesse in luoghi belli: un lavoro dove le pause fossero gradevoli e rilassanti, dove la dimensione artigianale fosse sovrana. Volevo che i rapporti tra le persone rispettassero umanità̀ e verità̀, e il salario fosse adeguato ad una vita dignitosa e serena. L’atmosfera di lavoro alla quale pensavo era quella tranquilla da cui nasce la creatività̀. Immaginavo di fare sì giusti profitti, però con etica, dignità̀ e morale, cercando di dare corpo all’affascinante relazione tra “profitto e dono” che mi portava a sentirmi, nel piccolo, un custode del Creato.

In questo avevo come esempio radioso San Benedetto, che univa la più̀ sentita umanità̀ paterna ad un grande rigore nella preghiera e nel lavoro, legati tra loro durevolmente nel tempo. Spesso mi tornava alla mente la particolare raccomandazione che quel grande santo indirizzava ad ogni abate: “Mostrati insieme rigoroso e dolce, esigente maestro, tenerissimo padre”.

In quel periodo riandavo con la mente agli insegnamenti del babbo: se non si è persone per bene non si otterrà̀ il rispetto altrui; la serietà̀, il coraggio, la trasparenza delle proprie azioni, in altre parole, il rispetto della dignità̀, propria e altrui, sono indispensabili per la vita.

Quando fu il tempo, insieme a Federica, decidemmo di sposarci e di andare a vivere nella sua casa di Solomeo. In quei primi anni i successi erano contenuti, ma per me straordinari. Pensai ad una nuova sede per la mia minuscola fabbrica, che fino a quel punto si trovava alla periferia di Perugia. Mi venne in mente Solomeo; soffrivo il malinconico declino e l’abbandono di questo antico, piccolo borgo, e un giorno, d’istinto, pensai di provare ad acquistare la torre e il castello medievale. Ero incantato da quelle architetture che portavano sulla loro pelle i segni di tanta storia, mi sembravano eterne, e perfette per la sede della mia piccola azienda, proprio al centro di questo suggestivo nucleo urbano medievale.

Una circostanza che moltissimo, tra quelle che mi sono occorse, simboleggia il senso della vita fu la commovente trattativa per l’acquisto del castello di Solomeo. Io davvero, a quel tempo, ero un ragazzo, e dinanzi a me, ecco il proprietario del castello, un signore di cui avevo sentito parlare come di una persona amabilissima, però molto ferma nelle sue convinzioni. Il mio, in fondo, era un tentativo quasi disperato. Invece l’incontro ebbe il magico effetto di portare allo scoperto una gentilezza d’animo che condividevamo, una corrispondenza di sentimenti desiderata. Ci volle un grande impegno sincero, però infine il proprietario, quando comprese che il mio obiettivo era quello di conservare il castello integralmente, e di renderlo, nel tempo, un bene a favore dell’umanità̀, acconsentì a vendere. I miei sogni coincidevano con i suoi, erano visionari, e grandi. Forse avrà̀ visto in me qualcuno che avrebbe potuto realizzare quanto le sue forze e il tempo ormai non gli permettevano più̀, e mi volle bene.

Fu una delle prime volte che sperimentai l’importanza anche concreta del dialogo, e quali frutti possa dare la parola diretta e sincera e l’intendersi sui temi cruciali: il rispetto per la persona umana, la custodia, la conservazione della tradizione, la qualità̀ speciale per il prodotto dell’industria. La persona non va rispettata soltanto nelle forme, ma anche e soprattutto nella sostanza. Come ho detto, ero convinto che si dovesse lavorare in luoghi speciali quanto più̀ possibile vicini alla natura. Ritengo utile che vengano tramandati valori umanistici, come la famiglia, la spiritualità̀, l’artigianato e l’agricoltura, perché́ in essi vedo le radici del futuro.

Confucio riteneva che la restaurazione degli antichi rituali e un buon linguaggio fossero essenziali per favorire il progresso dell’umanità̀. Diceva: “Io non creo, tramando”. Quindi non si tratta di nostalgia del passato ma di valori autentici, nei quali troviamo ogni risposta che cerchiamo per la costruzione del nostro domani. Per questo mi sono sempre sentito un po’ custode, e oggi anche traghettatore dal passato al futuro.

Comprando il castello avrei dato corpo a tre grandi concetti: lavorare in un luogo antico, bellissimo, con un suo “charme”; dare in garanzia alle banche un immobile monumentale invece di un edificio industriale e infine valorizzare la rocca e il borgo, che probabilmente nell’arco di venti anni avrebbero conosciuto una forte rivalutazione economica e di qualità̀ di vita.

In quel periodo molte persone non amavano vivere nei borghi, perché́ vi era una certa propensione a spostarsi verso le città dove, come era stato per la mia famiglia, si sperava di trovare una condizione di vita economicamente e socialmente migliore.

A me accadeva il contrario, e inoltre l’azienda continuava a crescere di pari passo con il mio amore per questo borgo, al punto che iniziai ad immaginarne una sorta di rinascita. Virtualmente considero quello l’inizio del progetto per l’industria e per Solomeo.

Arrivò poi il momento di iniziare ad immaginare come comunicare l’industria e i suoi valori: la pubblicità̀ che facevamo nei giornali di moda, di modesta quantità̀, era impostata su temi che rappresentavano la cultura italiana, la vita del paese, la dignità̀, il rispetto, l’educazione, il garbo e il valore della custodia dei luoghi. Nel maggio del 1996 uscimmo con un’immagine dove figuravamo padre Gualtiero – un frate francescano mio caro amico –, la modella Letizia ed io, mentre guardavamo dei libri antichi appartenenti alla preziosa biblioteca del monastero francescano di Monteripido, vicino a Perugia. Preparammo una bella didascalia dalla quale emergeva l’atmosfera positiva del momento, il sogno reale di quell’anno. Scrivemmo: “Abbiamo bisogno di un nuovo Umanesimo”.

Tornando a Solomeo, prendeva corpo sempre di più̀ la nostra notorietà̀, le cose andavano bene, l’azienda cresceva; da un lato il cashmere Made in Italy, l’innovazione e contemporaneità̀ del prodotto; dall’altro il tipo di rapporto speciale con i valori umani, la visione filosofica, i progetti destinati all’umanità̀, la volontà̀ di essere, per la nostra parte, custodi e traghettatori dei valori della tradizione.

Nel piccolo borgo avevamo terminato completamente i restauri. La qualità̀ della vita degli abitanti ci pareva amabile, nel castello medievale si lavorava in un’atmosfera piacevole e cordiale. Trovavamo normale che non vi fossero differenze remunerative tra operai e impiegati; ci sembrava giusto che gli stipendi fossero leggermente superiori a quelli medi, e ancora un po’ di più̀ per chi aveva le mani da artigiano. Ci riunivamo in assemblea ogni tre mesi e dalle questioni aziendali più̀ generali si arrivava fino ai dettagli. Ogni aspetto, anche minimo, era analizzato. Tenevamo molto ad esempio alla pausa pranzo nel ristorante aziendale, dove venivano serviti piatti della tradizione umbra. Al mattino l’ingresso in fabbrica era per tutti alle otto. Non vi era cartellino da timbrare. La sera il lavoro finiva alle diciassette e trenta. Sono cose giuste, secondo me universalmente valide.

Cominciavano le prime interviste importanti, di giornali internazionali incuriositi da quanto stava avvenendo in quel piccolo e fino ad allora quasi sconosciuto paesino umbro: come si poteva lavorare bene in un borgo medievale? Come poteva quell’antico castello essere più̀ efficiente di una struttura funzionale e moderna? Internet era ancora lontano dal suo attuale sviluppo, e si credeva che fossimo un po’ isolati, perché́ l’economia contemporanea ha bisogno di contatti in tempo reale. Poi c’erano tutte quelle scale interne, gli ambienti piccoli, e le pareti non si potevano toccare perché́ molte di esse erano decorate da dipinti. Di fatto quell’ambiente funzionava perfettamente, e se non era adatto alla frettolosità̀ dei tempi, lo era per lo spirito, e questo contava di più̀.

Illustrazione di Sunflowerman

La tecnologia però avanzava a passi rapidissimi; vennero lanciati Amazon e Yahoo; in Europa si iniziava a pensare a internet come a una grande rivoluzione; non era ancora ben chiaro a tutti, ma il web avrebbe costituito presto la più̀ incredibile rivoluzione del terzo millennio che stava per nascere. Oggi viviamo, sentiamo respirare, questa nuova atmosfera affascinante, fatta un po’ di apprensione, ma anche di grandi aspettative.

L’interesse per Solomeo non attrasse soltanto i giornali ma anche più̀ in generale l’ambiente della cultura. Nell’anno 2001 l’Università Bocconi di Milano ne fece oggetto particolare di una ricerca. Da una parte la filosofia e dall’altra i risultati dell’azienda erano sani; non facevamo profitti esagerati, né era quello il nostro obiettivo: volevamo una giusta crescita, un giusto profitto, che tutto fosse gentile.

Divenimmo così una realtà economica di primo livello mondiale: dalla maglieria al total look, alla ricerca di uno stile contemporaneo, casual e nel contempo chic. Sviluppammo le collezioni maschile e femminile complete, ready-to-wear, calzature e accessori e aprimmo il canale retail, inaugurando boutique monomarca in Europa, America e Asia.

Ma è nelle origini il senso più profondo di ogni agire umano, e ci pare che il nostro successo internazionale abbia trovato fondamento nelle giuste scelte dei primi anni, a partire da quella di seguire gli insegnamenti morali di mio padre, quando mi raccomandava di essere sempre una persona per bene. Nella grande “Storia universale” di Ibn Khaldūn, un pensatore arabo del XIV secolo che per la cultura del Medio Oriente è importante forse quanto Dante e Shakespeare lo sono per l’Occidente, ho trovato una trattazione del concetto di “giusto” che in tutto e per tutto è applicabile a noi. È un valore che conosco fin dalla mia infanzia, perché veniva sempre evocato dai contadini nelle preghiere per il giusto raccolto.»

 
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